sabato 29 giugno 2013

Margherita Hack, È morta una stella

di Serena Sgroi
MARGHERITA HACK, È MORTA UNA STELLA - Icona dell'anticonformismo e del pensiero libero, Margherita Hack si è spenta questa mattina all'alba all'ospedale di Cattinara a Trieste. La professoressa, astrofisica italiana, era una persona di indiscutibile prestigio nel panorama culturale mondiale. Amica delle stelle, come lei stessa di definiva, la Hack aveva la straordinaria e rara capacità di coniugare le profonde conoscenze sul cosmo con una brillante proprietà espressiva. Quella capacità espressiva che l'ha resa nota al grande pubblico più delle sue attività strettamente scientifiche. Quel marcato accento toscano, l'ateismo più volte dichiarato e il suo non nascosto orientamento politico l'hanno sempre contraddistinta. Una voce che non aveva paura di farsi sentire, spesso fuori dal coro, a dispetto del silenzio nel quale ha combattuto la sua lotta personale contro i problemi cardiaci che l'hanno costretta al ricovero una settimana fa, a dispetto del silenzio nel quale se n'è andata e della riservatezza nella quale, secondo le sue ultime volontà, ha chiesto di essere sepolta. Nata a Firenze nel 1922, prima del matrimonio con Aldo De Rosa (nel 1944, senz'altro una delle poche volte che sia stata in chiesa) è stata campionessa di salto in alto e in lungo (discipline sportive nelle quali, in quegli anni, era abbastanza raro vedere impegnata un donna). Innumerevoli i testi divulgativo-scientifici da lei redatti nel corso degli anni,(dal "Corso di fisica stellare. Interpretazione degli spettri stellari" del 1955 al "Stelle, pianeti e galassie. Viaggio nella storia dell'astronomia: dall'antichità a oggi" di quest'anno), tante le onorificenze e i riconoscimenti (Dama di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana, Medaglia d'oro ai benemeriti della scienza e della cultura e svariate cittadinanze onorarie). Quello che l'ha resa "celebre" in tutto il mondo è stato il ruolo di Direttrice dell'Osservatorio Astronomico di Trieste (la sua città adottiva): è stata infatti la prima donna a ricoprire tale carica. Accanto ai suoi studi, compiuti non solo in Italia ma anche presso numerosi osservatori americani ed europei, grazie ai quali le è stato intitolato un asteroide, si è sempre dedicata alla politica e ad attività nel sociale; basti pensare alla sua espressione in favore alla ricerca sul nucleare (ma non nel nostro Paese,da lei ritenuto non ancora pronto a un simile impegno), la lotta pro-eutanasia, l'azione di difesa dei diritti civili e del riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali, la sua posizione di animalista e vegetariana fin da bambina. Un personaggio carismatico, una donna "fuori dagli schemi", la cui vita è difficile riassumere in poche righe e la cui scomparsa lascia un vuoto difficilmente colmabile nel mondo culturale e scientifico.

venerdì 21 giugno 2013

Arte, Giacomo Manzù e la Porta della Morte

di Claudia Pellegrini

ARTE, GIACOMO MANZU E LA PORTA DELLA MORTE - Giacomo Manzù (pseudonimo di Manzoni), è uno dei più grandi scultori contemporanei. Formatosi nelle botteghe degli artigiani, imparò presto a lavorare diversi materiali, quali legno, pietra e argilla. Durante il servizio militare a Verona, ebbe modo di continuare a coltivare la passione per l’arte, avendo modo di studiare personalmente le porte di San Zeno ed i calchi dell’Accademia Cicognini.
Dopo un breve soggiorno a Parigi, nel 1929, si stabilì a Milano, dove contribuì, insieme ad altri, a sviluppare i germi della ribellione anti novecentista che sfocerà, pochi anni dopo, nel movimento di Corrente. Proprio a Milano realizzò le prime opere in bronzo, ma si dedicò anche al disegno, all’incisione, all’illustrazione ed alla pittura.
L’attività iniziale risentì molto del primitivismo, allora molto diffuso, successivamente, con un secondo viaggio a Parigi, giunse ad una svolta: abbandonò gli schemi arcaicizzanti per conquistare gradualmente l’originale sensibilità luministica, la morbidezza plastica e la delicata sensualità che diventeranno i capisaldi del suo stile.
Diventato ormai una delle personalità più significative della scultura italiana, tra il 1938 ed il 1939, iniziò la serie dei Cardinali, ieratiche immagini in bronzo dalla struttura molto schematica e piramidale, avvolte nella massa semplice e potente della stola, rappresentate assorte nella meditazione. Inoltre produsse anche un ciclo di bassorilievi in bronzo con le Deposizioni e le Crocifissioni, nate dall’impatto della reazione alla violenza della guerra.
Nel 1941 ottenne la cattedra di scultura all’Accademia di Brera di Milano. L’alta religiosità laica di Manzù culminò poeticamente nella Porta della Morte per San Pietro, a cui lavorò dal 1954 al 1964, che merita qualche cenno più in particolare. Le porte bronzee delle chiese cristiane costituirono da sempre un capitolo importante della scultura. Nel Medioevo furono create da grandi artisti a Montecassino, Verona, Pisa, Trani, Benevento. Nel Quattrocento la consuetudine continuò su larga scala, culminando in quella che Michelangelo definì “l’accesso al Paradiso”, ovvero la Porta d’oro di Lorenzo Ghiberti per il Battistero. In epoca moderna diviene un vezzo di committenti ecclesiastici per guarnire edifici antichi con porte moderne. La Porta della Morte diventa un capolavoro moderno, nonostante i vari eventi e le polemiche che accompagnarono la sua gestazione: la curia romana infatti non riteneva adeguata alla circostanza la simpatia comunista dell’artista. Tuttavia, l’esito mirabile dell’opera fu proprio l’aver fuso lo spirito laico e la religiosità delle scene, rappresentate con umana semplicità.
Sul retro della porta, visibile quando è chiusa, è raffigurato l’episodio del principe del pontificato di Giovanni XXIII, l’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II. Nel lungo pannello con la solenne processione dei prelati, vi sono due figure particolarmente toccanti, il pontefice sulla destra e, a sinistra, un monsignore che esce di scena, visto di spalle. Quest’ultimo è don Giuseppe de Luca, nel frattempo morto, così come lo fu, a istallazione completata, lo stesso Giovanni XXIII. Don Giuseppe, consigliere iconografico del Manzù, si era molto impegnato poiché credeva che l’artista avrebbe donato alla Basilica di San Pietro un’opera degna dei geni che la avevano eretta e decorata. Manzù non lo deluse. Sempre nel retro della porta è raffigurato il cardinale africano Rugambwa: il fatto che fosse di colore testimoniava l’universalità del cattolicesimo. Il recto è diviso in due zone. Nella superiore sono raffigurate la Morte di Maria e la Morte di Cristo. Lo spazio inferiore è più ricco, infatti vi si trovano la morte di Abele e quella di Giuseppe, il protomartire lapidato Stefano, Gregorio VII. Inoltre vengono rappresentate per simboli le morti per violenza, le morti civili, nell’aria e sulla terra, oltre ad un’aggiunta postuma del decesso di Giovanni XXIII.
Appartengono agli stessi anni opere quali Passo di Danza, la Porta dell’Amore per il Duomo di Salisburgo e la Porta della Pace e della guerra per la chiesa di Saint Laurenz a Rotterdam. Nonostante l’apparente ruvidezza del carattere e la tendenza alla solitudine, non mancarono all’artista i più alti riconoscimenti, sia in Italia che sul piano internazionale. Nel 1977 venne inaugurato a Bergamo il grande Monumento al Partigiano, in cui Manzù riprende, di nuovo, il tema della morte.

giovedì 20 giugno 2013

Storia, è Successo Oggi: 1837 God Save The Queen!

di Claudia Pellegrini

STORIA, E SUCCESSO OGGI: 1837 GOD SAVE THE QUEEN - Il 20 giugno del 1837, il re Guglielmo IV morì di una malattia al fegato. Poiché non aveva figli, lasciò il trono alla nipote diciottenne Alexandrina Victoria, meglio conosciuta dalla storia semplicemente con il nome di regina Vittoria, colei il cui regno durò ben 63 anni, e viene tutt’ora definito comunemente “epoca vittoriana”, un periodo di grande espansione, grandi cambiamenti sociali, economici e tecnologici nel Regno Unito.
La giovane Vittoria, appena ascesa al trono, dovette far fronte a diversi problemi che infestavano il regno, come ad esempio una insurrezione nel Canada ed alcuni problemi in Giamaica, dove si faticava a rispettare le nuove leggi; riuscì con un cambio di governo a far fronte ai problemi delle colonie, rivelandosi molto più abile di ciò che si pensava. Contò molto sull’appoggio del marito, il principe Alberto di Sassonia Coburgo-Gotha, sposato nel 1840, nonostante fosse piuttosto impopolare tra la società inglese che, a causa delle sue origini tedesche ma anche della riservatezza, lo guardò sempre con molta diffidenza; era comunemente noto come “Principe Consorte”, e non ottenne mai dignità nobiliare pari alla moglie.
Come ogni monarca che si rispetti, anche Vittoria dovette fare i conti con alcuni attentati rivolti alla sua persona, uno nel 1840, mentre passeggiava in carrozza per le strade di Londra accompagnata da suo marito, ed altri tre nel 1842. In tutti i casi gli attentatori stranamente non furono condannati a pene troppo severe, questo incrementò la popolarità della sovrana.
Grazie all’amore per l’Irlanda, il paese divenne una delle prime località turistiche del regno, Vittoria stessa vi si recava di sovente, e non solo, si dimostrò anche molto generosa con gli irlandesi quando, nel 1845, l’isola fu colpita da una malattia delle patate che degenerò in carestia: la regina si adoperò personalmente per organizzare delle donazioni ed operazioni di carità. Ma nonostante questo, i ministri che seguirono le operazioni non furono troppo in grado di far fronte al problema, ovviamente la colpa ricadde su Vittoria, e ne oscurò la fama, almeno in Irlanda. La questione dell’isola dunque versò in condizioni sfavorevoli, tanto che la regina non volle più visitarla fino al 1900, quando vi si recò per chiamare personalmente gli irlandesi alle armi in occasione della Guerra Boera, nonostante i molti oppositori.
Ritornando al principe Alberto, fu l’organizzatore della prima Esposizione Universale, tenutasi nel 1851. La mostra fu un successo inaspettato, tanto che con i numerosi proventi si finanziò la costruzione del South Kensington Museum, in seguito chiamato Albert Museum.
Uno dei momenti più significativi fu l’entrata in guerra del Regno Unito, nel 1854, in Crimea, dalla parte del regno Ottomano, contro la Russia. Corse voce inizialmente che Vittoria avrebbe appoggiato lo zar, cosa non vera, e questo ne determinò altra impopolarità, cresciuta oltretutto a guerra terminata per il modo in cui aveva gestito la faccenda. Ma altri problemi erano in dirittura d’arrivo: la guerra dell’oppio del 1857 e la ribellione dei Sepoys contro il controllo da parte della Compagnia Britannica delle Indie Orientali. Ne conseguì che l’India fu messa sotto controllo diretto della corona, e per l’occasione Vittoria fu anche incoronata Imperatrice d’India.
Nel 1861 divenne vedova. Il lutto per la perdita dell’amato consorte ne devastò il morale, tanto da spingerla a uscire raramente in pubblico, nonché indossare abiti neri, cosa che continuerà a fare per il resto della vita, guadagnandosi il nomignolo di Widow of Windsor. Da questo momento in poi preferì trascorrere il suo tempo nelle varie residenze di campagna, attorniata dalle persone più fidate, condividendo con loro la passione per i cani, la botanica ed il ricamo. Nonostante l’apparente tranquillità della sua vita, tormenti interiori le rodevano l’anima, tanto che arrivò persino ad accusare della morte del marito il suo stesso figlio, il Principe di Galles Edoardo, nonché di relazione adulterina con una giovane cugina ( nella puritana Inghilterra vittoriana un vero e proprio scandalo). Si mormora però che ebbe una relazione con un cameriere, tale John Brown, anche se la faccenda non è mai stata chiarita; quel che sappiamo con certezza è che una volta deposta nella bara, dopo sua specifica richiesta, le furono posti nelle mani rispettivamente il cappello di suo marito ed i capelli del suddetto cameriere, e già questo potrebbe decisamente accreditare certe voci.
Riemerse parzialmente dalla condizione di vedova inconsolabile (consolata dal cameriere!) quando fu eletto primo ministro Disraeli, che riuscì a coinvolgerla più attivamente nel governo. In questo periodo poi fu vittima di un altro tentativo di attentato, peraltro, guarda caso, scongiurato dal fido John Brown, il quale difese la sovrana dalla pistola dell’attentatore. Ma gli attentati non si conclusero certo con quest’ultimo, infatti, nel 1882, un pazzo scozzese tentò di nuovo l’impresa, fallita miseramente al pari delle altre.
Nel 1887 si festeggiarono sontuosamente i 50 anni di regno, ormai la sua impopolarità era un lontano ricordo, tanto che ormai, da quando era morto il suo cameriere, veniva additata come esempio di moralità e virtù fino alla morte avvenuta nel 1901. La sua monarchia fu più simbolica che politica, caratterizzò soprattutto la moralità e la famiglia. Proprio riguardo la famiglia, la sua contribuì a legarsi, tramite matrimoni, a tutte le famiglie regnanti d’Europa. Devono dunque averle cantato God save the Queen anche al di là delle bianche scogliere di Dover.

 

mercoledì 19 giugno 2013

Arte, Il Mistero della Tela Più Grande del Mondo

di Claudia Pellegrini

ARTE, IL MISTERO DELLA TELA PIU GRANDE DEL MONDO - Nella Basilica di San Pietro a Perugia sono conservate diverse opere di Antonio Vassilacchi. Il pittore in questione si era formato alla scuola di Paolo Veronese e Tintoretto. Tra il 1591 ed il 1611,  gli furono commissionate dall’abate Giacomo di San Felice di Salò dieci tele riguardanti episodi della vita di Cristo con riferimenti al Vecchio Testamento; furono poi collocate, cinque per parte, ai lati della navata centrale della basilica. Indubbiamente sono tele di grande pregio, ma c’è un altro quadro, stranamente poco conosciuto e bistrattato dalla storia dell’arte che merita interesse per la singolarità di ciò che mostra: si tratta de Il Trionfo dell’Ordine dei Benedettini, un’enorme tela che, la più grande al mondo, che occupa tutta la parte superiore della parete di ingresso interna della chiesa.
La tela raffigura Santi, Papi, Cardinali, Vescovi, Abati e vari fondatori di Ordini correlati, e tutti insieme contornano San Benedetto da Norcia. Le figure sono realizzate più grandi del naturale, e questo è indice di maestosità. Sappiamo che il soggetto fu imposto al pittore, ma quel che possiamo solo immaginare, è che il Vassilacchi creò un effetto degno delle moderne tecniche digitali.
Se si osserva la tela verso l’altare maggiore, tutte le figure messe insieme nel quadro ne formano una sola, e più ci si allontana, più è facile notarla. In particolare, se si concentra l’attenzione sulla figura di San Benedetto e sui due squarci di cielo dove all’interno sono posti il sole e la luna, si nota chiaramente una figura piuttosto inquietante, demoniaca: San Benedetto è il naso ed i suddetti squarci di cielo sono gli occhi, San Pietro e San Paolo agli estremi sono le orecchie ed i due ciuffi centrali sono le corna. Affascinante davvero. Inoltre, per chi cercasse le zanne, basta guardare i benedettini dipinti di spalle. La bocca fortunatamente o sfortunatamente manca.
Vassilacchi ha fatto risaltare ancora di più il misterioso personaggio con posture e colori, tanto che, una volta individuata la figura demoniaca, non si nota più altro, tutti quei papi, vescovi, monaci, scompaiono davanti all’enormità del demone. Oltretutto il dipinto, era a uso e consumo esclusivo del sacerdote, infatti il popolo gli dava le spalle durante la messa.
Appurato che la figura c’è, ed è reale, ci si chiede perché si trovi all’interno di una tela da esibire in una chiesa. Per vendetta verso il committente? Per criticare la corruzione della Chiesa dell’epoca? È difficile che un’evidenza del genere sia sfuggita alla morsa dell’Inquisizione, eppure la tela è ancora tra noi. Di Vassilacchi non si sa moltissimo, e forse sarebbe utile indagare sulla sua vita per poter capire il mistero di questa tela. Sappiamo che era nato nell’isola greca di Milos, e già da bambino si era trasferito a Venezia, dove la famiglia italianizzò il nome, ma in genere veniva chiamato da tutti l’Aliense, ovvero lo straniero. Oltretutto era molto richiesto dai committenti religiosi e dal governo della Serenissima, poiché era un artista serio e particolarmente mansueto; ebbe persino due figlie suore. Tutto questo accresce ancora di più il mistero della figura diabolica che fa capolino dall’enorme tela.
Resta il fatto che è lì, sopra la porta d’uscita, una porta che, se la guardiamo bene da lontano, insieme al quadro, sembra proprio la bocca del demone. Chissà, forse voleva avvisare i fedeli che, una volta usciti dalle sacre mura della chiesa, si entrava inevitabilmente tra le fauci del peccato.

martedì 18 giugno 2013

Storia, è Successo Oggi: 1815 Troppi errori a Waterloo

di Claudia Pellegrini

STORIA, E SUCCESSO OGGI: 1815 TROPPI ERRORI A WATERLOO - Pochi eventi come la battaglia di Waterloo hanno cambiato le sorti della storia. È il fatto d’armi più conosciuto al mondo, l’evento che determinò il tramonto dell’impero napoleonico, la fine di un’epopea che per vent’anni aveva fatto tremare i troni di molti sovrani, ma si era anche adoperata a diffondere le idee di uguaglianza e libertà nate in seguito alla Rivoluzione Francese. Oggi, ma anche successivamente all’evento, il termine Waterloo è inteso proverbialmente come sconfitta totale, perché questo fu, una tremenda e sconvolgente sconfitta di un uomo che era già entrato a far parte del mito.
Nel marzo 1815 Napoleone sfuggì al suo esilio all’isola d’Elba per fare ritorno in Francia e riconquistare il trono, cogliendo di sorpresa tutta l’Europa riunita nel Congresso di Vienna. Dopo lo sconcerto iniziale i nemici dell’imperatore reagirono, mentre Napoleone radunava la sua Grande Armeè in tutta fretta per batterli sul tempo. Il 16 giugno l’esercito inglese era stato costretto a ritirarsi, insieme a quello prussiano: le cose si mettevano piuttosto bene. Ma il giorno seguente l’abile stratega corso commise una serie di errori che la storia certo non si aspettava da lui. Infatti, contrariamente a ciò che aveva fatto in passato, non inseguì gli eserciti in ritirata per neutralizzarli definitivamente, ma temporeggiò misteriosamente. E non solo, la sera che precedette Waterloo, alcuni reparti francesi, invece di prepararsi ad uno scontro che sapevano decisivo, si permisero di bivaccare indisturbati all’osteria: evidentemente Napoleone non li controllò come era sovente fare. La mattina del 18, all’alba, le truppe francesi videro all’orizzonte lo schieramento dei nemici, dopo che aveva smesso di piovere.
Napoleone in mattinata non inviò indicazioni precise alle truppe, rimase sul vago per troppo tempo, tempo prezioso che poteva costargli caro. Oltretutto la zona in cui si apprestavano ad agire era un susseguirsi di colli e forre, per cui la visibilità era scarsa, ancora di più per la pioggia che era caduta fino al mattino. L’artiglieria rimbalzava dietro ai colli dove si erano posizionati i nemici, l’unico modo per colpirli era tirare alla cieca ma con scarsi risultati, ma, data la mollezza del terreno bagnato, le palle di cannone affondavano. E proprio a causa della complessità del terreno, Napoleone dovette optare per una strategia più semplice del solito, e questo gli fu fatale.
Le truppe furono schierate in una formazione chiusa, troppo compatta, un facile bersaglio per i tiri d’artiglieria, infatti si persero molti uomini, troppi. Il perché di tutto questo è ignoto. Una brigata di corazzieri fu inviata a caricare il centro dello schieramento nemico che, per qualche attimo, sembrò tentennare, ma fu un grosso errore poiché si sprecarono le unità migliori della cavalleria francese. Oltretutto alcuni reggimenti partirono alla carica senza averne ricevuto ordine, generando un caos imperdonabile: troppi uomini e cavalli in un appezzamento di terreno relativamente piccolo. A questo punto urgevano altre truppe, ma Napoleone preferì tenere ciò che gli rimaneva per il momento in cui sarebbero comparsi i prussiani, cosa che avvenne nel pomeriggio; agendo in questo modo però perse una buona occasione per sferrare un colpo che poteva rivelarsi decisivo.
Un altro errore ci fu quando, in vista dei prussiani, Napoleone ordinò a 12 battaglioni della Guardia di Mezzo di attaccare la linea nemica, ma inspiegabilmente, costoro cambiarono direzione spostandosi a lato del nemico, addirittura i ranghi si scompagnarono diventando incontrollabili. Fu l’inizio della fine: dopo lunghi minuti sotto le scariche di fucileria che li dimezzarono, alcuni dei veterani si misero in fuga, i loro commilitoni li scambiarono per appartenenti alla Vecchia Guardia, ritenuta invincibile, così iniziarono a gridare “La Guardia indietreggia”. L’esercito così si disintegrò.
In seguito gli eventi della storia produssero i frutti che ben conosciamo. Ciò che ci è sconosciuto invece è che cosa sarebbe successo se Napoleone avesse avuto maggior fortuna. Era il più grande condottiero di tutti i tempi, e per un giorno, su quel terreno bagnato che affondava fino alle ginocchia, ebbe in mano non solo il proprio destino ma anche le sorti dell’Europa: entrambi gli sfuggirono.

domenica 16 giugno 2013

Arte, William Turner il Pittore della Luce

di Claudia Pellegrini

ARTE, WILLIAM TURNER IL PITTORE DELLA LUCE - William Turner (1775-1851) nonostante appartenga alla categoria dei pittori romantici, è considerato come il precursore della corrente impressionista; visto come una figura controversa, bisogna riconoscergli il merito di aver elevato il livello della pittura paesaggistica a competere con quella storica. Era famoso soprattutto per la pittura ad olio, ma molte delle opere che l’hanno reso famoso sono degli splendidi acquerelli che gli valsero il soprannome di “pittore della luce”.
Apprezzato prestissimo per il suo straordinario talento, fu riconosciuto dai contemporanei come artista di genio. I soggetti dai quali traeva maggiormente ispirazione erano naufragi, incendi, catastrofi naturali, nonché i vari fenomeni atmosferici, come la luce del sole, la pioggia, la nebbia. Nel 1834 scoppiò un tremendo incendio al parlamento inglese, Turner si precipitò ad assistervi di persona, e successivamente immortalò l’accaduto in una serie di acquerelli. Era anche molto affascinato dalla violenza del mare, ma anche dalle figure umane: in molte delle sue opere le figure umane avevano la duplice funzione di mostrare al mondo l’amore verso l’umanità, ma anche la sua vulnerabilità, la volgarità a confronto con il resto della natura, una natura suprema, cioè che ispira soggezione, grandiosa nella sua selvatichezza, indomabile e segno evidente del potere di Dio.
Importante per Turner era soprattutto la luce, rappresentazione dell’emanazione dello spirito divino, spesso resa in splendidi giochi di luce, riflessi nell’acqua o nel cielo. Un aneddoto vuole che si sia addirittura fatto legare all’albero maestro di una nave durante una tempesta, per meglio presenziare all’evento che avrebbe riportato su tela.
Viaggiò moltissimo, sostò diversi mesi in Francia per poter studiare le opere del Louvre; i suoi principali punti di riferimento furono Nicolas Poussin e Lorrain, di quest’ultimo soprattutto apprezzò la luminosità cromatica, le gradazioni pastello, la concentrazione di luce e solarità che, a suo giudizio, erano ineguagliabili. Nel 1819 in Italia restò folgorato dalla splendida luce mediterranea che immortalò in molti quadri, la luce infatti fu la protagonista principale delle vedute di Venezia. Celebre è il dipinto Venezia con Santa Maria della Salute, dove non si riesce a comprendere se la chiesa affiori da una caligine di colore, di nebbia e di acqua, come se fosse una visione, o se si stia dissolvendo in quegli stessi colori ed in quella luce.
Quando poi si recò a Roma, le sue opere si arricchirono di scene storiche e mitologiche, rifacendosi a Rembrandt. A questa categoria appartiene Regolo, un quadro che descrive un episodio della storia romana, nel quale non c’è alcuna ricerca di bellezza nelle forme, nessuna atmosfera arcadica, ma un’emozione che sollecita stupore ed inquietudine. Vi è rappresentato il porto di Cartagine, la città nemica di Roma; i cartaginesi, fatto prigioniero Attilio Regolo, lo rimandarono in patria per convincere i romani a rinunciare alla guerra. Egli invece li sollecitò a continuare, e per onor di parola, fece lo stesso ritorno a Cartagine, dove fu sottoposto a crudeli torture, quali il taglio delle palpebre, ed in seguito fu ucciso. Il vero protagonista del quadro è la grande luce proveniente dal fondo, un punto di fuga ideale nel quale convergono gli edifici che si affacciano sul porto. Qui è evidente la ricerca di Turner di rappresentare direttamente la luce, senza doverla utilizzare come strumento di visione.
Turner fu in grado di gettare le basi per una pittura che solo tempo dopo verrà riconosciuta come astratta, una costruzione di luci e colori ispirata da stimoli interiori e spirituali più che dall’esteriorità delle cose.

sabato 15 giugno 2013

Scienza, Latte e maionese per studiare le nanotecnologie

di Serena Sgroi
SCIENZA, LATTE E MAIONESE PER STUDIARE NANOTECNOLOGIE - Fanno parte della nostra quotidianità e forse a nessuno di noi verrebbe in mente di utilizzarli come strumenti utili alla ricerca nel campo della miniaturizzazione e della nanotecnologia. Un gruppo di studiosi italiani ha recentemente pubblicato sulla rivista scientifica PNAS (Proceedings of the National Academy of Sciences of the United States of America) i risultati di una indagine sui meccanismi di nano-attrito, fatta proprio grazie alle proprietà chimiche di miscele come latte, maionese, asfalto e fumo. Il team di lavoro della Sissa di Trieste, con la collaborazione del Cnr-Iom (Centro Nazionale Ricerche-Istituto Officina dei Materiali), del Centro Internazionale di Fisica Teorica di Trieste e del Dipartimento di Fisica dell'Universita degli studi di Milano, ha sfruttato le conoscenze già note circa caratteristiche proprie dei colloidi per aprire una nuova frontiera nell'ambito della comprensione dei meccanismi di attrito microscopico. I colloidi sono definiti in chimica come miscugli costituito da particelle (solide o liquide) con un diametro compreso tra i 5 e i 200 nanometri, disperse in un fluido. Osservando microscopicamente il comportamento di un fascio di luce che attraversa il colloide i ricercatori hanno potuto osservare il comportamento delle nanoparticelle, simularne il moto e indagarne il comportamento al variare dei parametri d'attrito. Il dettaglio e la precisione con cui sono state effettuate le misurazioni sulle forze di attrito intervenute sulle particelle colloidali non hanno precedenti. Lo studio, orgogliosamente italiano, potrebbe nei prossimi anni rivelarsi di fondamentale importanza nel campo dell'industria nano e hi-tech; ampio il grado di miglioramento per cellulari, motori automobilistici e tutto ciò che funziona e prende vita grazie all'assemblaggio di componenti su scala microscopica.

venerdì 14 giugno 2013

Storia, è Successo Oggi: 1789 I Superstiti del Bounty Raggiungono Timor

di Claudia Pellegrini

SORIA, E SUCCESSO OGGI: 1789 I SUPERSTITI DEL BOUNTY RAGGIUNGONO TIMOR - Il Vascello armato di Sua Maestà Bounty era un piccolo mercantile acquistato dalla Royal Navy per una missione botanica, fu inviato nell’Oceano Pacifico per acquistare alcuni esemplari dell’albero del pane e portarli nei possedimenti britannici delle Indie Orientali. La missione non venne mai portata a termine poiché alcuni dissapori tra il capitano William Bligh ed il suo luogotenente, Fletcher Christian, portarono alla rivolta di metà dell’equipaggio, rivolta che causò il celebre Ammutinamento del Bounty, il più famoso nella storia della marina britannica.
Il mercantile partì da Spithead a fine dicembre del 1787, intenzionato a raggiungere Tahiti doppiando Capo Horn. Questa rotta però fu impossibile da seguire a causa del cattivo tempo, così, dopo aver tentato per più di un mese di doppiare il capo, il capitano Bligh decise di invertire la rotta e dirigersi verso Tahiti navigando ad est. Durante il viaggio, a largo della Nuova Zelanda, incrociarono le isole Bounty, così il capitano decise di dare il loro nome al suo vascello. Sappiamo che durante la traversata perì un membro dell’equipaggio, non si sa bene per quale motivo, ma sicuramente la causa furono le cure inadeguate prestategli dal medico di bordo, il dottor Huggan, il quale era alcolizzato. Il viaggio fu lungo e difficile prima di raggiungere Tahiti, ma fortunatamente, una volta arrivati, riuscirono ad avere centinaia di piante. Tutto sembrava andare per il meglio, ufficiali e marinai fraternizzarono con gli indigeni del luogo, soprattutto con le donne che avevano costumi piuttosto liberi rispetto alle britanniche, prolungando la loro permanenza sul posto più del dovuto.
Si arrivò così all’aprile del 1789, quando la nave si accinse a compiere il viaggio di ritorno; ma qualcosa andò storto. Una parte dell’equipaggio, nonché alcuni ufficiali compreso Fletcher Christian, stanchi della vita di bordo e desiderosi di tornare dalle polinesiane che avevano da poco lasciato, si ammutinarono. Il capitano Bligh fu persino minacciato con una baionetta. Per quanto riguarda il ruolo del resto degli uomini di bordo, la storia è piuttosto incerta, non sappiamo infatti quanti con precisione si schierarono a favore degli ammutinati e quanti rimasero fedeli al capitano. Ma questo poco importa ai fini della storia, infatti l’ammutinamento continuò, Christian ed i suoi presero il comando della nave e misero lo sventurato comandante ed i suoi su una lancia e li abbandonarono in mare, mentre loro invertirono la rotta per tornare a Tahiti. Alcuni membri dell’equipaggio furono trattenuti sulla nave con la forza, e non solo perché la lancia non poteva imbarcare più di un certo numero di persone, ma anche per il fatto che, alcuni di loro, avevano competenze indispensabili per la navigazione.
Lungo la navigazione decisero di non andare subito a Tahiti ma di fondare una colonia sull’isola di Tubuai; solo in seguito raggiunsero la meta per imbarcare indigeni in modo che li aiutassero a costruire un fortino, al quale diedero il nome di Fort George. Ma ben presto le cose non si misero bene con la popolazione locale e decisero di andare via alla volta di Tahiti.
Il povero capitano Bligh invece, con pochi uomini, scarse razioni di cibo ed acqua, sprovvisto di carte nautiche, riuscì miracolosamente a raggiungere la colonia olandese di Timor il 14 giugno 1789: finalmente erano salvi dopo diverse peripezie. Purtroppo alcuni degli uomini che lo accompagnavano morirono di febbri tropicali, ma lui, il vero protagonista di tutta questa faccenda, rientrò presto in Europa portando con se la notizia dell’ammutinamento, incurante di lasciare a Timor il resto dei suoi uomini: doveva necessariamente risolvere l’incresciosa faccenda prima possibile. In Inghilterra si aprì un’inchiesta, che lo assolse completamente da questa manchevolezza, infatti la necessità e l’urgenza di segnalare il grave fatto, lo giustificavano completamente agli occhi della legge in materia.
Ma che fine fecero gli ammutinati? A quanto dichiararono i superstiti, Christian non volle restare a Tahiti ma preferì ripartire con il Bounty e pochi uomini alla ricerca di un altro posto dove rifugiarsi, e si fermò sull’isola di Pitcairn, luogo ideale per nascondersi, infatti il posto era stato scoperto da poco e le sue coordinate erano errate sulle carte di navigazione. Diedero fuoco al Bounty e tentarono di fondare una comunità. Purtroppo col passare degli anni i rapporti con i Polinesiani finirono per guastarsi: gli inglesi li trattavano come schiavi, così i nativi finirono per ribellarsi e molti inglesi trovarono la morte, tra i quali Christian stesso. Gli altri, quelli rimasti a Tahiti, furono catturati e riportati in Inghilterra per essere processati e condannati. Molti anni dopo la marina britannica scoprì l’isola di Pitcairn, lì si trovò davanti una pacifica comunità retta da uno degli ammutinati che aveva persino convertito gli indigeni, per questo motivo fece finta di niente, e la faccenda cominciata circa vent’anni prima si concluse.
Resta comunque alla storia la vicenda del coraggioso capitano Bligh, il quale riuscì a salvarsi, raggiungendo Timor su una lancia scoperta, coprendo 3.618 miglia nautiche, ovvero ben 6.700 km, in soli 47 giorni: un record ancora imbattuto.

giovedì 13 giugno 2013

Arte, Oggetti Volanti Non Identificati - Parte Seconda

di Claudia Pellegrini

ARTE, OGGETTI VOLANTI NON IDENTIFICATI - Madonna con Bambino di Carlo Crivelli – Ancora Carlo Crivelli. In questo caso il particolare che ha destato interesse ufologico è il paesaggio a destra della Madonna, paesaggio in cui sembrano decollare dei missili con tanto di scia di fuoco. Gli scettici, confrontando questo dipinto con altri dello stesso autore, hanno dedotto che ciò che ha suscitato tanto scalpore in quel paesaggio, sono semplicemente veloci pennellate che dovrebbero suggerire torri o campanili in lontananza, non certo missili in partenza.
Arianna e Bacco di Tiziano Vecellio -  Anche in quest’opera di Tiziano qualcuno ha voluto vedere qualcosa di anomalo. In alto nel cielo, sulla sinistra, sembrerebbe esserci la rappresentazione di una di quelle particolari formazioni circolari di difesa per ricognizione extraterrestre. Tuttavia, anche in questo caso, gli scettici hanno detto la loro, dando una chiara e semplice spiegazione per le otto luci nel cielo, e lo hanno fatto rifacendosi all’iconografia classica del soggetto scelto da Tiziano per la tela. L’iconografia classica infatti solitamente mostra Arianna che dorme mentre sopraggiunge il dio, anche se Ovidio dice che era sveglia e si lamentava del suo destino; i rinascimentali, più fedeli alla versione ovidiana, la avevano rappresentata sempre sveglia. Ma ciò che a noi importa maggiormente è Bacco, il quale, secondo Ovidio, prende la corona di Arianna e la scaglia nel cielo, facendola diventare una costellazione, la Corona Borealis. Dunque, nessuna formazione aliena nel cielo, solo la ex corona di Arianna.
Natività di Pinturicchio – In questo dipinto sulla sinistra, sospeso nel cielo sopra la collina c’è un oggetto luminoso grigiastro, come se fosse di metallo, infatti pare riflettere la luce solare, e sembra quasi sia in movimento. Ma non è solo, poiché nello spazio di cielo vicino ad un cipresso, è visibile un’altra sfera luminosa, di color grigio arancio. Molti hanno contestato questi particolari affermando che si trattasse semplicemente della rappresentazione del sole a raggiera, ed in effetti, se si pensa che Gesù è anche chiamato Sole di giustizia o Luce del Mondo, il ragionamento non fa una piega. Lo stesso si può ipotizzare per la seconda sfera, la quale potrebbe benissimo essere la stella che guidò i Magi alla grotta.
Madonna con Bambino e San Giovannino di Jacopo del Sellaio (o Sebastiano Mainardi) – Questo dipinto, oltre a portar dietro con se il problema dell’attribuzione, è quello che ha fatto più discutere gli ufologi, i quali vedono nella scena in alto a destra, dietro le spalle della Madonna, la vera e propria testimonianza di un incontro ravvicinato con un oggetto volante non identificato. Infatti si vede un personaggio che, con una mano sulla fronte, guarda verso un qualcosa che appare in cielo; anche il cane che è con lui guarda in quella direzione. Si nota infatti la presenza di un oggetto aereo, color grigio piombo, dotato di tanto di cupola, identificabile come un mezzo volante di forma ovoidale in movimento. Un’altra particolarità del dipinto è data dalla Stella della Natività che è accompagnata da tre piccole stelle o fiammelle. Questo particolare però è stato riscontrato anche in altri dipinti, riconducibili ad una particolare simbologia in voga nel periodo in cui a Firenze Savonarola la faceva da padrone, e si riferirebbe alla Triplice Verginità della Madonna, cioè prima, durante e dopo il parto. Per quanto riguarda invece l’apparizione invece si potrebbe spiegare con l’annuncio ai pastori, infatti, dai vangeli, sappiamo che proprio i pastori, mentre vegliavano il gregge di notte, furono svegliati da un angelo che annunciò loro la nascita di Cristo. Dunque, anche in questo caso, gli scettici hanno trovato una spiegazione.
L’elenco delle opere “sospette” non finisce qui, ce ne sono molte altre sia italiane che di autori stranieri. In questa sede è sembrato più opportuno esaminare le italiane più celebri. Che siano testimonianze ufologiche o meno poco importa: a volte è più interessante credere al mistero e sognare un po’ piuttosto che vedere la squallida realtà di tutti i giorni.

mercoledì 12 giugno 2013

Arte, Oggetti Volanti Non Identificati - Parte Prima

di Claudia Pellegrini

ARTE, OGGETTI VOLANTI NON IDENTIFICATI - Spesso capita di osservare un quadro e scorgere qualcosa di strano, qualcosa a cui non riusciamo a dare un’identità precisa, qualcosa che non dovrebbe esserci … Che ci si creda o no, in molte opere d’arte, generalmente precedenti al XVII secolo, è possibile scorgere dei particolari strani, oggetti che ricordano la forma di dischi volanti, piuttosto bizzarri per l’epoca, tanto che gli scettici li hanno catalogati come significati simbolici. Effettivamente, ragionandoci razionalmente, è improbabile che gli autori avessero davvero inserito in un dipinto a soggetto religioso, ad esempio, qualcosa di non canonico, anche perché, teniamo bene a mente che c’era chi commissionava queste opere, ne controllava il risultato finale e mai avrebbe permesso al pittore di rappresentare qualcosa di non concordato precedentemente. Ma allora gli strani oggetti rappresentati cosa sono? Lasciamo ogni spiegazione alla libera interpretazione di chi guarda, per entrare nello specifico ed occuparci delle singole opere in questione.
La Tebaide di  Paolo Uccello – In quest’opera sono raffigurate diverse scene di vita monastica: c’è la Vergine che appare a San Bernardo, un gruppo di monaci che si flagellano davanti al crocifisso, San Gerolamo in preghiera dentro una grotta,  San Francesco che riceve le stimmate e la predicazione di San Romualdo. L’oggetto non identificato in questione è situato al centro della grotta, è rosso e di forma discoidale, sospeso a mezz’aria; grazie a delle piccole pennellate di colore si ha la netta sensazione che lo strano oggetto compia una virata, proprio come si dice facciano i corpi volanti UFO. Alcuni hanno ipotizzato che si tratti di un cappello da cardinale, ed in effetti non si può dare torto a questa teoria, perché, all’epoca del dipinto, era quella la caratteristica forma del copricapo cardinalizio.
Annunciazione di Carlo Crivelli – Questo splendido quadro di Carlo Crivelli presenta un raggio che scende dal cielo e va a colpire la Madonna. Il raggio, per gli appassionati di ufologia, partirebbe da un oggetto volante non identificato che si intravede, sempre con la classica forma discoidale, tra le nubi. Effettivamente in molte delle rappresentazioni con questo tema non è insolito trovare il suddetto raggio di luce, ma ciò non dimostra che questo parta necessariamente da una navicella spaziale.
Le Marie al Sepolcro ( particolare del coperchio di un reliquiario) di autore ignoto – Si tratta di una piccola immagine sacra che fa parte di una serie di diverse scene della vita di Cristo, e rappresenta l’arrivo delle pie donne al sepolcro. Si vede la Vergine Maria che si avvicina al sepolcro, sul quale si vede una strana cupola, simile ad un disco volante, ma lo è davvero? Per molti si tratterebbe di una delle pochissime testimonianze dell’aspetto originale del Santo Sepolcro; sappiamo che quest’ultimo infatti, prima di essere distrutto nel 1009, era composto da una edicola sorretta da sei colonne, posta all’interno di un edificio sormontato da una cupola. Dunque, nessun disco volante.
Esaltazione dell’Eucarestia (part. Della Trinità) di Ventura Salimbeni – In questo dipinto compare quello che è stato più volte chiamato lo “Sputnik” di Montalcino (si trova infatti nella chiesa di San Pietro a Montalcino), poiché ricorda nella forma i satelliti artificiali russi. Nella parte alta dell’opera si vedono Gesù e Dio che tengono in mano due specie di antenne collegate ad una grossa sfera trasparente; la sommità di queste antenne è sormontata da una croce e da una piccola sfera. Nella sfera dove sono infisse le antenne vi è una scena che sembra essere l’interno di una stanza con una porta; inoltre è circondata da una fascia equatoriale. Il particolare più interessante è una protuberanza, in basso, simile ad un obiettivo per telecamera, che al suo interno sembra abbia una lente. Certamente il tema della Trinità è stato molto dipinto, e gli scettici hanno fatto notare che in questi quadri non era insolito inserire una sfera che simboleggiava il Globo del Creato, o Sfera Celeste, che non voleva rappresentare la Terra, ma bensì l’intero Universo; inoltre Gesù e Dio avevano spesso in mano degli scettri, simbolo del potere divino sul creato (le antenne dello Sputnik).
Continua ....

Alimentazione, Pizza in, Kebab out

di Serena Sgroi
ALIMENTAZIONE, PIZZA IN, KEBAB OUT -
Un prodotto gastronomico che non ha certo bisogno di
presentazioni: buona e bella, la pizza sembra essere un ottimo alimento per la nostra salute. Un recente studio evidenzia gli aspetti benefici del mangiare una semplice margherita. Pomodoro, mozzarella, olio d'oliva e basilico sono tutti ingredienti "toccasana" oltre che gustosi. Tutt'altro discorso invece per il kebab, un piatto tipico della gastronomia turca e divenuto ormai popolare in tutto il mondo. In un altro recentissimo studio sono stati analizzati tutti i "nei" dei saporitissimi panini e/o piatti kebab. La carne con la quale il kebab viene realizzato è ricca di grassi, per lo più scarti di pollo, tacchino, vitello senza i quali non avrebbe quel sapore così intenso. Per di più, nelle fasi di preparazione vengono utilizzate consistenti dosi di sale, talvolta nettamente superiori a quelle massime quotidiane consigliate dagli esperti in alimentazione. Eccesso calorico a parte, il kebab sembra essere un cibo che "attenta" alla nostra salute a differenza della pizza che, se consumata con una certa frequenza, può avere addirittura effetti benefici sul nostro organismo. Antiossidante, ricca di vitamine, calcio e proteine, la pizza è diventata negli ultimi anni piacevole oggetto di studi scientifici. Le antiche tradizioni hanno lasciato spazio ai ricercatori che analizzando fasi di preparazione e ingredienti hanno definito un decalogo, fissando parametri fondamentali per ogni tipo di pizza e dando vita a un vero e proprio Manifesto della Pizza Italiana Contemporanea. Il Manifesto, dello scorso anno, porta la firma di alcuni dei migliori piazzaioli italiani, oltre che di noti giornalisti enogastronomici ed esperti di alimentazione dell’Università della Pizza.

martedì 11 giugno 2013

Storia, è Successo Oggi: 1962 Fuga da Alcatraz

di Claudia Pellegrini

STORIA, E' SUCCESSO OGGI: 1962 FUGA DA ALCATRAZ - La mattina dell’undici giugno 1962, le guardie del carcere di massima sicurezza di Alcatraz scoprirono che tre detenuti erano misteriosamente scomparsi. Si trattava di Frank Lee Morris, noto rapinatore di banche, e dei fratelli Clarence e John Anglin, i quali la sera prima erano andati a dormire nelle loro celle come di consueto, faccenda testimoniata dalle guardie dei corridoi che erano passate più volte a controllare durante la notte, senza mai notare nulla di sospetto.
Il carcere di Alcatraz è situato su di un’isola che sorge nella Baia di San Francisco, prese il nome da un volatile marino che originariamente viveva in questo posto; poiché situata in una posizione strategica dal punto di vista militare, l’isola divenne una prigione militare nel 1933, successivamente si trasformò in un carcere federale di massima sicurezza, famoso in tutto il mondo per la ferrea disciplina. Vi venivano rinchiusi i criminali più pericolosi o quelli che avevano tentato l’evasione in altri istituti di correzione. Tra i detenuti celebri di Alcatraz ricordiamo Al Capone, che lasciò l’isola dopo cinque anni di isolamento, a quanto pare riportando problemi mentali piuttosto seri. Scappare da questo posto era praticamente impossibile, il numero delle guardie era di tre per ogni detenuto, chiunque aveva tentato di farlo era stato riacciuffato. È stato chiuso nel 1963, ed oggi è possibile accedervi per visite turistiche. Ma torniamo alla storia dell’evasione.
Quel mattino le guardie trovarono dei cuscini sotto le lenzuola, nonché delle palle di carta a simulare le teste, con tanto di occhi disegnati e capelli veri. Immediatamente diedero l’allarme, ed iniziò la più grande caccia all’uomo della storia: federali, polizia, Guardia Costiera, elicotteri militari furono mobilitati alla ricerca dei tre evasi. L’unica cosa che trovarono fu una zattera rudimentale, costruita con oggetti di fortuna, abbandonata nei pressi di Angel Island; si dedusse che i tre erano sicuramente affogati nelle acque particolarmente gelide del posto, il mezzo era troppo malmesso per poter trasportare tre uomini adulti. La caccia terminò. In seguito vennero rinvenute delle impronte sulla zattera, e si esaminò anche il caso di una macchina rubata ad Angel Island, e l’ipotesi della riuscita dell’evasione tornò a galla, proprio come aveva raccontato il famoso film del 1979, Fuga da Alcatraz, con Clint Eastwood.
Nonostante si possa faticare a credere che davvero i tre siano riusciti a sopravvivere all’evasione, quel che è certo è che Morris aveva un quoziente di intelligenza superiore al 98% della popolazione, e, come i suoi compari, era già evaso da altri penitenziari. Si ipotizza che sarebbe stato proprio lui a ideare il piano di fuga già dall’anno precedente; dietro le loro celle infatti c’era un canale per il riscaldamento, raggiunto scavando nel cemento con dei cucchiai prelevati dalla mensa. A quanto pare per coprire il rumore degli scavi, Morris suonava la fisarmonica. Il lavoro completato fu coperto dal compensato colorato. Anche un quarto prigioniero sarebbe dovuto fuggire, un certo Allen West, ma aveva fatto l’errore di mettere del cemento sull’apertura.
Sia Morris che i due fratelli Anglin, furono dichiarati morti nel 1979, l’Fbi infatti decise di chiudere il caso proprio in quell’anno, anche se un altro detenuto, un tale Thomas Kent, confessò che anche lui in origine aveva fatto parte dell’allegra brigata di evasori, ma purtroppo si era dovuto tirare indietro perché non sapeva nuotare. Kent vuotò per bene il sacco fornendo particolari molto interessanti sul caso, come ad esempio il fatto che la fidanzata di uno degli Anglin li avrebbe aspettati lungo la costa per poi portarli in auto oltre i confini messicani.
I tre oggi dovrebbero avere più di ottant’anni, e di loro non si è saputo più nulla. Forse sono affogati, o forse sono seduti su una bella spiaggia messicana a sorseggiare mojito, è probabile che non lo sapremo mai.

lunedì 10 giugno 2013

Arte, Lo Spiritista Romantico William Blake

di Claudia Pellegrini

ARTE, LO SPIRITISTA ROMANTICO WILLIAM BLAKE - William Blake (1757-1827) fu un personaggio molto particolare, definito da molti pazzo e visionario. I suoi quadri riproducono divinità, demoni e scene che diceva essere appartenenti alla vita nell’aldilà, della quale aveva avuto personalmente visioni. Aveva sostenuto per tutta la vita di essere costantemente guidato da misteriosi messaggeri celesti. Raccontava che il primo contatto avuto col mondo degli spiriti risaliva a quando aveva quattro anni, occasione in cui disse di aver visto addirittura Dio; una seconda visione arrivò dopo alcuni anni, quando vide anche un angelo luminoso. In occasione della morte del fratello raccontò di averne visto l’anima staccarsi dal corpo e battere le mani per la gioia. Non fece mai mistero di avere queste visioni che si susseguirono per tutta la durata della vita. Fu anche poeta, ed aveva una visione generale della religione decisamente diversa da quella generale: era infatti convinto che l’idea del peccato era solo un modo per intrappolare gli individui e legarne i desideri. Dunque, costringere gli uomini a sottostare ad un rigido codice morale era contrario allo spirito stesso della vita, e tutto ciò non era religione, la religione era ben altro. Nonostante fosse considerato un personaggio decisamente bizzarro, le sue opere ebbero grande riscontro, sia i quadri ma anche poesie intense e profonde.
Aveva manifestato sin da giovinetto uno spiccato talento per l’arte, infatti aveva presto iniziato a frequentare lo studio dell’incisore James Basire, dove cominciò a realizzare delle incisioni rappresentanti rovine classiche. Nel 1778 si iscrive alla Royal Academy, e due anni dopo espone anche un acquerello. Quando nel 1789 pubblicò i Canti dell’Innocenza, ne incise all’acquaforte parole e illustrazioni, e non solo, eseguì anche più di cinquecento decorazioni all’acquerello per Le Notti di Young. Illustrò anche alcuni episodi dei Racconti di Canterbury di Chaucer. Nel 1818 il pittore John Linnell gli chiese di illustrare il Libro di Giobbe e la Divina Commedia: Blake preparò un centinaio di disegni, molti dei quali rimasero però solo abbozzati.
Da sempre è risultato difficile inquadrarlo in un qualsiasi schema o appartenenza ad un movimento d’arte; la sua fu un’arte complessa, frutto dell’incontro e dell’unione di diverse componenti. Trovò infatti stimoli nell’antichità, nel Rinascimento, nel Manierismo, ma anche nella lettura religiosa, filosofica e mistica. Molto attratto dal Neogotico, fu sensibile agli stimoli del clima culturale dell’epoca, in cui si intrecciavano il mito classico settecentesco ed i primi fermenti romantici. Le illustrazioni delle proprie opere poetiche furono realizzate utilizzando tecniche di incisione e stampa molto innovative; testo e illustrazioni, per Blake, erano intimamente fusi, e dovevano essere parte di un unico progetto espressivo che lui studiava in modo preciso e maniacale. Nacque così la tecnica dell’acquaforte a rilievo, un procedimento che implica la scrittura del testo su lastra di rame con pennelli intinti in una sostanza bituminosa e resistente all’acido. Questo metodo permetteva infatti di porre sulla stessa lastra testo e immagini, proprio come gli antichi manoscritti miniati. La lastra così trattata veniva posta in un bagno acido, il quale corrodeva il rame non protetto, realizzando così una lastra adatta a stampe miniate. Questo metodo fu anche chiamato incisione inversa. Blake preferì battezzarlo stampa miniata.
Per lungo tempo è stato considerato il precursore del Romanticismo pittorico inglese, ma recentemente si è delineata una diversa interpretazione della sua produzione, che ha spinto non solo a rileggere la produzione poetica, ma anche a vedere nelle sue incisioni aspetti simbolici ed allegorici che rimandano all’influenza che ebbero su di lui le varie correnti esoteriche occidentali.

“L’immaginazione non è uno stato mentale: è l’essenza stessa dell’esistenza umana”. W.B.

domenica 9 giugno 2013

Cultura, Monterano: Una città Fantasma

di Claudia Pellegrini

CULTURA, MONTERANO: UNA CITTA' FANTASMA - A Ovest del Lago di Bracciano, percorrendo un antico sentiero, è possibile trovarsi di fronte ai resti di una città abbandonata da secoli, tra tombe etrusche, piccole grotte ricoperte dalla vegetazione e molte polle d’acqua ribollenti, che ne testimoniano l’antica attività vulcanica della zona: si tratta della città perduta di Monterano.
La sua storia inizia nel periodo etrusco, come testimoniano le numerose tombe disseminate sul sito, e, come tutti i centri etruschi, fu ben presto assoggettata ai romani che ne modificarono l’assetto e costruirono anche un acquedotto. Successivamente, a partire dal IV secolo d. C. subì le invasioni barbariche, le quali, soprattutto quella longobarda, finirono per impoverire la zona, tanto che gli abitanti dei vicini villaggi, pensarono di convergere tutti a Monterano che, sorgendo in collina, occupava una posizione più difendibile. Così la città si ampliò e furono costruite anche delle mura di cinta, e divenne anche sede episcopale, rendendo l’abitato un centro importante fino al X secolo, quando la diocesi si spostò a Sutri e la città tornò ad essere un borgo di poche anime.
Nel XIV secolo ci fu una rimonta economica, anche se il centro principale della zona restava comunque Bracciano. Tra la fine del 1300 e l’inizio del 1400, Monterano diventò celebre grazie a due capitani di ventura, Coluzia, che fu inviato dal papa a sedare la rivolta di Corneto, oggi Tarquinia, e Gentile, che partecipò alle lotte per la successione del Regno di Napoli. Nel 500 il feudo divenne proprietà degli Orsini, i quali approfittarono del periodo di crisi economica nonché della fine delle lotte intestine al papato, per investire sul territorio; ma il decollo economico vero e proprio si ebbe successivamente, con il passaggio del borgo alla famiglia Altieri, la quale generò anche un papa nel 1670, Clemente X. A questo punto il borgo si arricchì di costruzioni affidate a Gian Lorenzo Bernini, grazie al quale sorsero la Chiesa ed il Convento di San Bonaventura, nonché la grande fontana ottagonale, e si restaurò anche la facciata del palazzo Baronale.
In seguito alla morte di Clemente X Altieri, la zona fu dimenticata, e ripiombò nell’oscurità. Il peggio però accadde nel 1770, quando una violenta epidemia di malaria decimò la popolazione, soprattutto quella meno facoltosa. Nel 1798, con la decadenza del potere papale, passò sotto la Repubblica Romana, che però si estinse l’anno successivo con l’intervento delle truppe borboniche che restaurarono lo Stato Pontificio. Si racconta che l’abitato fu dato completamente alle fiamme dall’esercito francese poiché gli abitanti avevano rifiutato di macinare il grano degli abitanti della vicina Tolfa che erano stati sottomessi dai francesi stessi. Così Monterano scomparve per sempre.
Oggi non restano che rovine molto suggestive. Negli anni 50 del 900 divenne il luogo preferito di molti registi per girare alcune scene dei loro film: Ben Hur ad esempio, ma anche film italiani come Brancaleone alle Crociate, nonché Il Marchese del Grillo. Effettivamente, visitando il sito, è possibile vedere costruzioni di epoche diverse, testimonianza appunto delle diverse epoche vissute dal posto, cosa che colpisce piacevolmente il visitatore. Purtroppo delle opere berniniane resta solo la fontana, costruita sfruttando le fondamenta rocciose di una parete scoscesa, con alla sommità un leone colto nell’atto di scuotere con una zampa la roccia per far zampillare l’acqua. Resta comunque un itinerario affascinante per tutti coloro che volessero immergersi nel passato, un posto in cui vale la pena sostare qualche minuto per riflettere sull’inesorabilità della storia e del tempo.

sabato 8 giugno 2013

Arte, Giuditta e Oloferne Secondo Donatello

di Claudia Pellegrini

ARTE, GIUDITTA E OLOFERNE SECONDO DONATELLO - Il gruppo di Giuditta e Oloferne è un’opera particolare, rende alla perfezione la grande tragicità della donna che con eroismo ha ucciso il generale assiro, ma anche la morte violenta dello stesso che sopraggiunge quasi senza che egli se ne accorga. Donatello probabilmente voleva dare un senso di unione indissolubile alle due figure, quasi sembra di vedere un altro celebre gruppo, quello del conte Ugolino e l’arcivescovo Ruggeri descritti da Dante nel ghiaccio dell’Antenora. La base triangolare sulla quale sono posati i due personaggi è molto suggestiva e stupisce per la scelta delle figure: uomini che vendemmiano, danzano, si abbracciano e montano sul corpo di un Sileno. Donatello nel suo ultimo periodo sembra avvicinarsi molto al mondo pagano, lo si vede anche da altre decorazioni delle sue opere, come ad esempio nel pulpito di San Lorenzo.
La statua era dei Medici, e nel 1496 fu sequestrata insieme ai loro beni e portata dal loro palazzo sulla ringhiera di Palazzo Vecchio; successivamente fu smossa per lasciare il posto al David di Michelangelo e fu posizionata nella Loggia della Signoria. Nel 1919 è ritornata al posto che occupava nel 1496.
Spesso si è pensato che in origine fosse stata una fontana, infatti nei cuscini ci sono dei fori che potevano avere delle cannelle, anche se, secondo alcuni critici, è alquanto improbabile, dato che il gruppo è troppo imponente per essere il boccio terminale di una fontana; se così fosse è inevitabile pensare a un adattamento a lavoro già abbondantemente iniziato.
Donatello si sofferma molto sulla figura di Oloferne piuttosto che su quella di Giuditta, nonostante i due siano molto legati scultoreamente parlando, quasi dimenticando che la cosa più importante della rappresentazione è l’atto di recidere la testa, per il quale la vicenda di Giuditta è famosa. Ma l’artista in questo caso ha voluto rendere soprattutto l’unione, rappresentando la donna nell’atto di colpire, con la spada levata, in attesa di una separazione che in questo caso ancora non c’è. Donatello fotografa il momento che precede l’azione, e lo fa in maniera così reale che i personaggi sembrano quasi vivi, sul punto di muoversi da un momento all’altro. Oloferne è al centro della scena, completamente abbandonato sui cuscini, con un aspetto non certo minaccioso, sembra quasi che dorma, con le labbra dischiuse e gli occhi chiusi. Giuditta invece ha un’espressione più fredda e rigida, e stringe possessiva e dominatrice i capelli nel nemico con una mano, mentre con le gambe si avvinghia al corpo dell’assiro.
Il gruppo ha una certa carica erotica che fa pensare ad una rivisitazione nuova ed originale del tema biblico, anche per il fatto che Donatello sceglie di non rappresentare l’evento nel pieno dello svolgimento, come ad esempio faranno gli artisti rinascimentali, oppure i barocchi come Artemisia Gentileschi. A quanto pare lo scultore si astiene dal giudizio morale che poi era lo scopo principale di certe rappresentazioni bibliche, presentando semplicemente due esseri umani animati da differenti passioni che però si vengono ad unire in una sola. Inoltre, con la scelta di immortalare il momento precedente all’omicidio, l’artista rende eterno quell’istante in cui l’eroina riflette su ciò che si appresta a fare; e questa riflessione la si vede dallo sguardo che non ha quella scintilla d’odio che brilla negli occhi della Giuditta di Artemisia Gentileschi, ne tantomeno la serenità di un’altra famosa Giuditta, quella di Botticelli, che se ne va con la spada in mano a cose già fatte senza neanche uno schizzo di sangue. La Giuditta di Donatello è diversa, ha un volto imperscrutabile, oltre che una nota mascolina, forse un po’ contratto nell’atto di pensare, quasi stesse soppesando il suo gesto prima di compierlo.
Il movimento del gruppo è a spirale, reso essenzialmente dall’avvinghiarsi dei due corpi al centro, e per questo si può affermare che in questa sede Donatello sviluppa una delle tematiche fondamentali del futuro Romanticismo: amore e morte.