venerdì 5 luglio 2013

Scienza, Parmitano e il suo "volo-live"


di Serena Sgroi
SCIENZA, PARMITANO E IL SUO "VOLO-LIVE" - Mente Parmitano twitta che è "impossibile descrivere cosa un siciliano provi per l'Etna", dal passato ci arrivano misteriosi segnali elettromagnetici.L'astronauta italiano,originario dell'isola, ha condiviso con i suoi  53.000 follower alcune foto della Sicilia scattate a circa 400 km di altitudine. Le immagini dell'Etna, "gigante visibile a occhio nudo" anche a quell'altezza, sono solo l'ultimo messaggio inviato dallo spazio dal trentasettenne di Paternò che si trova a bordo della Stazione Spaziale Internazionale dal per la missione Volare, la prima e più lunga missione dell'Agenzia Spaziale Italiana. L'avventura del catanese Luca, pilota sperimentatore dell'Aeronautica Militare, è iniziata qualche anno fa in una base nel Kazakhstan. Da quando, a fine maggio, Parmitano è partito dalla Terra ha sempre  mantenuto un contatto con noi, comunicandoci non soltanto obiettivi e risultati circa le sue attività ma anche, sopratutto, provando a descriverci emozioni e sensazioni così lontane dalla realtà terrestre. Così lontano e pure così vicino: il primo saluto dallo spazio l'ha dedicato alla famiglia, poi ha partecipato a metà giugno alla trasmissione in streaming sul web "Edicola Fiore live" dove, sulle note di "ciuri ciuri" ha incollato a conquistato circa 2 milioni di utenti spettatori, connessi alla diretta) e ha anche condiviso con noi il dolore per la scomparsa di Margherita Hack. Vistolo spirito con il quale Parmitano ha intrapreso questa sua esperienza, viene da pensare che Volare sia proprio il nome più adatto che si potesse trovare per la missione: un'esperienza dalle emozioni uniche e tanto indescrivibili che lui forse sta cercando in tutti i modi di condividere con noi per stimolare la nostra fantasia a "volare" e tenergli  compagnia durante il suo "volo". Intanto Italia, Gran Bretagna, Germania, Australia e Usa si interrogano su alcuni segnali radio captati recentemente da un gruppo di esperti, al lavoro su una ricerca di cui ci parla Science questo mese. Questi veloci ed energetici lampi giunti a noi oggi sembrano essere partiti oltre 8 miliardi di anni fa; si ipotizza dunque che abbiamo avuto origine da una misteriosa sorgente a circa 8 miliardi di anni luce da noi.

mercoledì 3 luglio 2013

Caso Stamina, Un fitto intreccio di misteri


di Serena Sgroi
CASO STAMINA, UN FITTO INTRECCIO DI MISTERI - Davide Vannoni, ideatore del metodo Stamina finisce sotto accusa per frode scientifica. La Stamina Foundation Onlus, l'associazione fondata nel 2009 in Italia per sostenere la ricerca sul trapianto di cellule staminali mesenchimali e diffondere la cultura della medicina rigenerativa, è finita alla ribalta della cronaca solo pochi mesi fa, grazie a una serie di servizi televisivi condotti da Le Iene di Italia uno. In brevissimo tempo, il mondo scientifico e non ha focalizzato la propria attenzione sulle attività e gli obiettivi della Fondazione. Le cellule staminali manifestano delle straordinarie capacità rigenerative; l'idea di poter sfruttare tali capacità per aprire una strada alla cura di malattie fino a oggi considerate mortali è senza ombra di dubbio nobile. Qualche ombra di dubbio però, su come con il metodo Stamina vengano fornite cure compassionevoli nell'ospedale di Brescia, c'è. E non si tratta della classica questione "all'italiana". Tanto che a lanciare l'ultimo "campanello" d'allarme è stata la rivista Nature. Nella nostra penisola la comunità scientifica e l'opinione pubblica sono nettamente bipartite nelle schiere "pro e contro Vannoni". Intanto, il Ministero della Salute ha avviato un piano di sperimentazione clinica autorizzato dal Parlamento che costerà alle casse dello Stato circa tre milioni di euro, nonostante il ministro Lorenzin sia ancora in attesa dei protocolli ufficiali necessari a dare il via alla sperimentazione. Protocolli che pare abbiano messo un po' in difficoltà il prof. Vannoni che, in un'intervista su Wired, definisce Stamina come una "metodica diversa" dalle tradizionali "ricette" e che perciò non può essere tradotta in uno "standard". Le terapie con cellule staminali mesenchimali riguardano una gran varietà di malattie e, attualmente, in tutto il mondo vengono affrontate come sperimentali. La Stamina Foundation Onlus ha già presentato una domanda di brevetto. Domanda nella quale, come sembra esser stato portato alla luce dalla ricostruzione pubblicata su Nature, compaiono due foto-copie: le foto in questione dovrebbero essere la dimostrazione che le cellule mesenchimali col metodo Vannoni possano essere trasformate in cellule nervose, ma sembrano essere state prese dagli studi di un gruppo di ricerca che nulla ha a che vedere con il metodo Stamina e che, qualora la frode risultasse vera, non garantirebbe l'efficacia del metodo stesso. Vannoni si difende intanto, difendendo i risultati e le analisi sui pazienti trattati.

martedì 2 luglio 2013

Scienza,Voyager stupisce ancora

di Serena Sgroi
SCIENZA, VOYAGER STUPISCE ANCORA - Furono lanciate nel lontano 1977 per studiare i giganti gassosi Giove e Saturno. Sfruttando una configurazione di allineamento planetario particolarmente vantaggiosa alla loro accelerazione verso l'esterno del nostro sistema solare, calcolata dagli astronomi e verificatasi proprio negli anni successivi alla loro partenza da Terra, le due sonde dell'ormai storico progetto Voyager riuscirono a portare a termine gli obiettivi preposti dalla NASA meglio di quanto sperato dallo staff che gestisce la missione. Questo risultato insieme alla sorprendente carica radioattiva di cui sono dotate entrambe le Voyager ha invogliato gli scienziati a non concludere il viaggio di questi due oggetti che, grazie al brillante lavoro di costrizione e montaggio del Jet Propulsion Laboratory,   ormai da oltre trent'anni passeggiano nel nostro sistema planetario. E così le due "creature", vagando solitarie nello spazio, continuano ancora oggi a inviare a Terra una cospicua mole di dati sempre più inattesi. I diversi gruppi di ricerca chiamati ad analizzare ed elaborare le informazioni si dedicano ciascuno a uno specifico tema; questa frammentazione degli studi ha portato il fiorire, sopratutto negli ultimi dieci anni, di numerose scoperte e varie pubblicazioni, la maggior parte delle quali fa capo a un unico oggetto, senza il lavoro del quale tante cose sullo spazio che ci circonda ancora non le sapremo. La straordinarietà delle due sonde Voyager include la possibilità di rivoluzionare alcune teorie sull'eliosfera finora mai messe in discussione e l'eventualità di lasciare una traccia del nostro mondo a distanze "astronomiche".  A bordo di ognuna di esse infatti un disco d'oro, il Voyager Golden Record, contiene informazioni sulla vita terrestre (una selezione di immagini, audio e notizie significative della vita dell'uomo sul pianeta Terra). Per di più i recenti segnali inviati dalla Voyager 1 sembrano proporre agli esperti, firmatari di tre distinti studi su Science Express, la scoperta di una nuova (mai ipotizzata finora) fascia elio-sferica dalle caratteristiche sorprendenti. L'unità di misura delle sostanze in astronomia è la cosiddetta Unità Astronomica (pari a circa 150 milioni di chilometri - equivalenti alla distanza media tra la Terra e il Sole); la sonda Voyager 1 si trova tra le 80 e le 100 UA, in una regione si spazio dove il campo magnetico del Sole, che si propaga così lontano sotto forma di vento solare, interagisce in modo del tutto inatteso (secondo quanto osservato dai rilevatori della sonda) con il plasma interstellare (gas ionizzato e molto rarefatto che riempie gli spazi interstellari). Non si può dire dunque che Voyager 1 abbia lasciato il Sistema Solare, oltrepassando i confini dell'elio-pausa (la regione di spazio dove termine l'influenza del campo magnetico solare e il vento solare è praticamente nullo) come ipotizzato dai ricercatori l'estate scorsa, benché sia già così distante da noi. 

sabato 29 giugno 2013

Margherita Hack, È morta una stella

di Serena Sgroi
MARGHERITA HACK, È MORTA UNA STELLA - Icona dell'anticonformismo e del pensiero libero, Margherita Hack si è spenta questa mattina all'alba all'ospedale di Cattinara a Trieste. La professoressa, astrofisica italiana, era una persona di indiscutibile prestigio nel panorama culturale mondiale. Amica delle stelle, come lei stessa di definiva, la Hack aveva la straordinaria e rara capacità di coniugare le profonde conoscenze sul cosmo con una brillante proprietà espressiva. Quella capacità espressiva che l'ha resa nota al grande pubblico più delle sue attività strettamente scientifiche. Quel marcato accento toscano, l'ateismo più volte dichiarato e il suo non nascosto orientamento politico l'hanno sempre contraddistinta. Una voce che non aveva paura di farsi sentire, spesso fuori dal coro, a dispetto del silenzio nel quale ha combattuto la sua lotta personale contro i problemi cardiaci che l'hanno costretta al ricovero una settimana fa, a dispetto del silenzio nel quale se n'è andata e della riservatezza nella quale, secondo le sue ultime volontà, ha chiesto di essere sepolta. Nata a Firenze nel 1922, prima del matrimonio con Aldo De Rosa (nel 1944, senz'altro una delle poche volte che sia stata in chiesa) è stata campionessa di salto in alto e in lungo (discipline sportive nelle quali, in quegli anni, era abbastanza raro vedere impegnata un donna). Innumerevoli i testi divulgativo-scientifici da lei redatti nel corso degli anni,(dal "Corso di fisica stellare. Interpretazione degli spettri stellari" del 1955 al "Stelle, pianeti e galassie. Viaggio nella storia dell'astronomia: dall'antichità a oggi" di quest'anno), tante le onorificenze e i riconoscimenti (Dama di gran croce dell'Ordine al merito della Repubblica italiana, Medaglia d'oro ai benemeriti della scienza e della cultura e svariate cittadinanze onorarie). Quello che l'ha resa "celebre" in tutto il mondo è stato il ruolo di Direttrice dell'Osservatorio Astronomico di Trieste (la sua città adottiva): è stata infatti la prima donna a ricoprire tale carica. Accanto ai suoi studi, compiuti non solo in Italia ma anche presso numerosi osservatori americani ed europei, grazie ai quali le è stato intitolato un asteroide, si è sempre dedicata alla politica e ad attività nel sociale; basti pensare alla sua espressione in favore alla ricerca sul nucleare (ma non nel nostro Paese,da lei ritenuto non ancora pronto a un simile impegno), la lotta pro-eutanasia, l'azione di difesa dei diritti civili e del riconoscimento giuridico delle coppie omosessuali, la sua posizione di animalista e vegetariana fin da bambina. Un personaggio carismatico, una donna "fuori dagli schemi", la cui vita è difficile riassumere in poche righe e la cui scomparsa lascia un vuoto difficilmente colmabile nel mondo culturale e scientifico.

venerdì 21 giugno 2013

Arte, Giacomo Manzù e la Porta della Morte

di Claudia Pellegrini

ARTE, GIACOMO MANZU E LA PORTA DELLA MORTE - Giacomo Manzù (pseudonimo di Manzoni), è uno dei più grandi scultori contemporanei. Formatosi nelle botteghe degli artigiani, imparò presto a lavorare diversi materiali, quali legno, pietra e argilla. Durante il servizio militare a Verona, ebbe modo di continuare a coltivare la passione per l’arte, avendo modo di studiare personalmente le porte di San Zeno ed i calchi dell’Accademia Cicognini.
Dopo un breve soggiorno a Parigi, nel 1929, si stabilì a Milano, dove contribuì, insieme ad altri, a sviluppare i germi della ribellione anti novecentista che sfocerà, pochi anni dopo, nel movimento di Corrente. Proprio a Milano realizzò le prime opere in bronzo, ma si dedicò anche al disegno, all’incisione, all’illustrazione ed alla pittura.
L’attività iniziale risentì molto del primitivismo, allora molto diffuso, successivamente, con un secondo viaggio a Parigi, giunse ad una svolta: abbandonò gli schemi arcaicizzanti per conquistare gradualmente l’originale sensibilità luministica, la morbidezza plastica e la delicata sensualità che diventeranno i capisaldi del suo stile.
Diventato ormai una delle personalità più significative della scultura italiana, tra il 1938 ed il 1939, iniziò la serie dei Cardinali, ieratiche immagini in bronzo dalla struttura molto schematica e piramidale, avvolte nella massa semplice e potente della stola, rappresentate assorte nella meditazione. Inoltre produsse anche un ciclo di bassorilievi in bronzo con le Deposizioni e le Crocifissioni, nate dall’impatto della reazione alla violenza della guerra.
Nel 1941 ottenne la cattedra di scultura all’Accademia di Brera di Milano. L’alta religiosità laica di Manzù culminò poeticamente nella Porta della Morte per San Pietro, a cui lavorò dal 1954 al 1964, che merita qualche cenno più in particolare. Le porte bronzee delle chiese cristiane costituirono da sempre un capitolo importante della scultura. Nel Medioevo furono create da grandi artisti a Montecassino, Verona, Pisa, Trani, Benevento. Nel Quattrocento la consuetudine continuò su larga scala, culminando in quella che Michelangelo definì “l’accesso al Paradiso”, ovvero la Porta d’oro di Lorenzo Ghiberti per il Battistero. In epoca moderna diviene un vezzo di committenti ecclesiastici per guarnire edifici antichi con porte moderne. La Porta della Morte diventa un capolavoro moderno, nonostante i vari eventi e le polemiche che accompagnarono la sua gestazione: la curia romana infatti non riteneva adeguata alla circostanza la simpatia comunista dell’artista. Tuttavia, l’esito mirabile dell’opera fu proprio l’aver fuso lo spirito laico e la religiosità delle scene, rappresentate con umana semplicità.
Sul retro della porta, visibile quando è chiusa, è raffigurato l’episodio del principe del pontificato di Giovanni XXIII, l’apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II. Nel lungo pannello con la solenne processione dei prelati, vi sono due figure particolarmente toccanti, il pontefice sulla destra e, a sinistra, un monsignore che esce di scena, visto di spalle. Quest’ultimo è don Giuseppe de Luca, nel frattempo morto, così come lo fu, a istallazione completata, lo stesso Giovanni XXIII. Don Giuseppe, consigliere iconografico del Manzù, si era molto impegnato poiché credeva che l’artista avrebbe donato alla Basilica di San Pietro un’opera degna dei geni che la avevano eretta e decorata. Manzù non lo deluse. Sempre nel retro della porta è raffigurato il cardinale africano Rugambwa: il fatto che fosse di colore testimoniava l’universalità del cattolicesimo. Il recto è diviso in due zone. Nella superiore sono raffigurate la Morte di Maria e la Morte di Cristo. Lo spazio inferiore è più ricco, infatti vi si trovano la morte di Abele e quella di Giuseppe, il protomartire lapidato Stefano, Gregorio VII. Inoltre vengono rappresentate per simboli le morti per violenza, le morti civili, nell’aria e sulla terra, oltre ad un’aggiunta postuma del decesso di Giovanni XXIII.
Appartengono agli stessi anni opere quali Passo di Danza, la Porta dell’Amore per il Duomo di Salisburgo e la Porta della Pace e della guerra per la chiesa di Saint Laurenz a Rotterdam. Nonostante l’apparente ruvidezza del carattere e la tendenza alla solitudine, non mancarono all’artista i più alti riconoscimenti, sia in Italia che sul piano internazionale. Nel 1977 venne inaugurato a Bergamo il grande Monumento al Partigiano, in cui Manzù riprende, di nuovo, il tema della morte.

giovedì 20 giugno 2013

Storia, è Successo Oggi: 1837 God Save The Queen!

di Claudia Pellegrini

STORIA, E SUCCESSO OGGI: 1837 GOD SAVE THE QUEEN - Il 20 giugno del 1837, il re Guglielmo IV morì di una malattia al fegato. Poiché non aveva figli, lasciò il trono alla nipote diciottenne Alexandrina Victoria, meglio conosciuta dalla storia semplicemente con il nome di regina Vittoria, colei il cui regno durò ben 63 anni, e viene tutt’ora definito comunemente “epoca vittoriana”, un periodo di grande espansione, grandi cambiamenti sociali, economici e tecnologici nel Regno Unito.
La giovane Vittoria, appena ascesa al trono, dovette far fronte a diversi problemi che infestavano il regno, come ad esempio una insurrezione nel Canada ed alcuni problemi in Giamaica, dove si faticava a rispettare le nuove leggi; riuscì con un cambio di governo a far fronte ai problemi delle colonie, rivelandosi molto più abile di ciò che si pensava. Contò molto sull’appoggio del marito, il principe Alberto di Sassonia Coburgo-Gotha, sposato nel 1840, nonostante fosse piuttosto impopolare tra la società inglese che, a causa delle sue origini tedesche ma anche della riservatezza, lo guardò sempre con molta diffidenza; era comunemente noto come “Principe Consorte”, e non ottenne mai dignità nobiliare pari alla moglie.
Come ogni monarca che si rispetti, anche Vittoria dovette fare i conti con alcuni attentati rivolti alla sua persona, uno nel 1840, mentre passeggiava in carrozza per le strade di Londra accompagnata da suo marito, ed altri tre nel 1842. In tutti i casi gli attentatori stranamente non furono condannati a pene troppo severe, questo incrementò la popolarità della sovrana.
Grazie all’amore per l’Irlanda, il paese divenne una delle prime località turistiche del regno, Vittoria stessa vi si recava di sovente, e non solo, si dimostrò anche molto generosa con gli irlandesi quando, nel 1845, l’isola fu colpita da una malattia delle patate che degenerò in carestia: la regina si adoperò personalmente per organizzare delle donazioni ed operazioni di carità. Ma nonostante questo, i ministri che seguirono le operazioni non furono troppo in grado di far fronte al problema, ovviamente la colpa ricadde su Vittoria, e ne oscurò la fama, almeno in Irlanda. La questione dell’isola dunque versò in condizioni sfavorevoli, tanto che la regina non volle più visitarla fino al 1900, quando vi si recò per chiamare personalmente gli irlandesi alle armi in occasione della Guerra Boera, nonostante i molti oppositori.
Ritornando al principe Alberto, fu l’organizzatore della prima Esposizione Universale, tenutasi nel 1851. La mostra fu un successo inaspettato, tanto che con i numerosi proventi si finanziò la costruzione del South Kensington Museum, in seguito chiamato Albert Museum.
Uno dei momenti più significativi fu l’entrata in guerra del Regno Unito, nel 1854, in Crimea, dalla parte del regno Ottomano, contro la Russia. Corse voce inizialmente che Vittoria avrebbe appoggiato lo zar, cosa non vera, e questo ne determinò altra impopolarità, cresciuta oltretutto a guerra terminata per il modo in cui aveva gestito la faccenda. Ma altri problemi erano in dirittura d’arrivo: la guerra dell’oppio del 1857 e la ribellione dei Sepoys contro il controllo da parte della Compagnia Britannica delle Indie Orientali. Ne conseguì che l’India fu messa sotto controllo diretto della corona, e per l’occasione Vittoria fu anche incoronata Imperatrice d’India.
Nel 1861 divenne vedova. Il lutto per la perdita dell’amato consorte ne devastò il morale, tanto da spingerla a uscire raramente in pubblico, nonché indossare abiti neri, cosa che continuerà a fare per il resto della vita, guadagnandosi il nomignolo di Widow of Windsor. Da questo momento in poi preferì trascorrere il suo tempo nelle varie residenze di campagna, attorniata dalle persone più fidate, condividendo con loro la passione per i cani, la botanica ed il ricamo. Nonostante l’apparente tranquillità della sua vita, tormenti interiori le rodevano l’anima, tanto che arrivò persino ad accusare della morte del marito il suo stesso figlio, il Principe di Galles Edoardo, nonché di relazione adulterina con una giovane cugina ( nella puritana Inghilterra vittoriana un vero e proprio scandalo). Si mormora però che ebbe una relazione con un cameriere, tale John Brown, anche se la faccenda non è mai stata chiarita; quel che sappiamo con certezza è che una volta deposta nella bara, dopo sua specifica richiesta, le furono posti nelle mani rispettivamente il cappello di suo marito ed i capelli del suddetto cameriere, e già questo potrebbe decisamente accreditare certe voci.
Riemerse parzialmente dalla condizione di vedova inconsolabile (consolata dal cameriere!) quando fu eletto primo ministro Disraeli, che riuscì a coinvolgerla più attivamente nel governo. In questo periodo poi fu vittima di un altro tentativo di attentato, peraltro, guarda caso, scongiurato dal fido John Brown, il quale difese la sovrana dalla pistola dell’attentatore. Ma gli attentati non si conclusero certo con quest’ultimo, infatti, nel 1882, un pazzo scozzese tentò di nuovo l’impresa, fallita miseramente al pari delle altre.
Nel 1887 si festeggiarono sontuosamente i 50 anni di regno, ormai la sua impopolarità era un lontano ricordo, tanto che ormai, da quando era morto il suo cameriere, veniva additata come esempio di moralità e virtù fino alla morte avvenuta nel 1901. La sua monarchia fu più simbolica che politica, caratterizzò soprattutto la moralità e la famiglia. Proprio riguardo la famiglia, la sua contribuì a legarsi, tramite matrimoni, a tutte le famiglie regnanti d’Europa. Devono dunque averle cantato God save the Queen anche al di là delle bianche scogliere di Dover.

 

mercoledì 19 giugno 2013

Arte, Il Mistero della Tela Più Grande del Mondo

di Claudia Pellegrini

ARTE, IL MISTERO DELLA TELA PIU GRANDE DEL MONDO - Nella Basilica di San Pietro a Perugia sono conservate diverse opere di Antonio Vassilacchi. Il pittore in questione si era formato alla scuola di Paolo Veronese e Tintoretto. Tra il 1591 ed il 1611,  gli furono commissionate dall’abate Giacomo di San Felice di Salò dieci tele riguardanti episodi della vita di Cristo con riferimenti al Vecchio Testamento; furono poi collocate, cinque per parte, ai lati della navata centrale della basilica. Indubbiamente sono tele di grande pregio, ma c’è un altro quadro, stranamente poco conosciuto e bistrattato dalla storia dell’arte che merita interesse per la singolarità di ciò che mostra: si tratta de Il Trionfo dell’Ordine dei Benedettini, un’enorme tela che, la più grande al mondo, che occupa tutta la parte superiore della parete di ingresso interna della chiesa.
La tela raffigura Santi, Papi, Cardinali, Vescovi, Abati e vari fondatori di Ordini correlati, e tutti insieme contornano San Benedetto da Norcia. Le figure sono realizzate più grandi del naturale, e questo è indice di maestosità. Sappiamo che il soggetto fu imposto al pittore, ma quel che possiamo solo immaginare, è che il Vassilacchi creò un effetto degno delle moderne tecniche digitali.
Se si osserva la tela verso l’altare maggiore, tutte le figure messe insieme nel quadro ne formano una sola, e più ci si allontana, più è facile notarla. In particolare, se si concentra l’attenzione sulla figura di San Benedetto e sui due squarci di cielo dove all’interno sono posti il sole e la luna, si nota chiaramente una figura piuttosto inquietante, demoniaca: San Benedetto è il naso ed i suddetti squarci di cielo sono gli occhi, San Pietro e San Paolo agli estremi sono le orecchie ed i due ciuffi centrali sono le corna. Affascinante davvero. Inoltre, per chi cercasse le zanne, basta guardare i benedettini dipinti di spalle. La bocca fortunatamente o sfortunatamente manca.
Vassilacchi ha fatto risaltare ancora di più il misterioso personaggio con posture e colori, tanto che, una volta individuata la figura demoniaca, non si nota più altro, tutti quei papi, vescovi, monaci, scompaiono davanti all’enormità del demone. Oltretutto il dipinto, era a uso e consumo esclusivo del sacerdote, infatti il popolo gli dava le spalle durante la messa.
Appurato che la figura c’è, ed è reale, ci si chiede perché si trovi all’interno di una tela da esibire in una chiesa. Per vendetta verso il committente? Per criticare la corruzione della Chiesa dell’epoca? È difficile che un’evidenza del genere sia sfuggita alla morsa dell’Inquisizione, eppure la tela è ancora tra noi. Di Vassilacchi non si sa moltissimo, e forse sarebbe utile indagare sulla sua vita per poter capire il mistero di questa tela. Sappiamo che era nato nell’isola greca di Milos, e già da bambino si era trasferito a Venezia, dove la famiglia italianizzò il nome, ma in genere veniva chiamato da tutti l’Aliense, ovvero lo straniero. Oltretutto era molto richiesto dai committenti religiosi e dal governo della Serenissima, poiché era un artista serio e particolarmente mansueto; ebbe persino due figlie suore. Tutto questo accresce ancora di più il mistero della figura diabolica che fa capolino dall’enorme tela.
Resta il fatto che è lì, sopra la porta d’uscita, una porta che, se la guardiamo bene da lontano, insieme al quadro, sembra proprio la bocca del demone. Chissà, forse voleva avvisare i fedeli che, una volta usciti dalle sacre mura della chiesa, si entrava inevitabilmente tra le fauci del peccato.